Il viaggio parte dalla F40, la prima Ferrari celebrativa. Voluta da Enzo Ferrari per omaggiare i quarant’anni dalla fondazione del marchio, nato nel 1947. Un’automobile figlia ancora dei quei tempi in cui le automobili sportive erano dure e pure. Fu l’auto che inaugurò la moda delle supercar a prezzi mozzafiato. D’altronde eravamo nei lussuriosi anni ‘80, e la F40 costruita in tiratura limitata (mille esemplari previsti diventati poi 1311), era ambita da tanti nuovi ricchi. Talmente esclusiva che, venduta in origine da Maranello a 374 milioni di lire dell’epoca, nelle aste andò facilmente sopra il miliardo.
Ferrari usava la F40 persino come benefit/cambio merce per pagare lo stipendio ai suoi piloti di F1 dell’epoca (Mansell, Prost) e abbassare l’importo dovuto in contanti. A quell'epoca in Formula Uno dominava il motore turbo e la Ferrari era all’avanguardia nello sviluppo dei propulsori sovralimentati. Così la supercar pensata per celebrare i 40 anni doveva essere per forza imparentata con quella tecnologia che aveva portato la Ferrari a sfiorare i titoli mondiali con Villeneuve, Pironi, Tambay e poi con Alboreto. La F40 fu il frutto dell’evoluzione estrema di un modello precedente, la 288 GTO, la prima berlinetta turbo di Maranello. La GTO però era un’auto basata sulle forme e sulla carrozzeria di una normalissima 308, il modello base del Cavallino, e con la 308 si confondeva esteticamente. Per cui la tecnologia sotto il cofano non riceveva il giusto risalto d’immagine.
Perciò Ferrari diede incarico all’ingegnere Nicola Materazzi, il responsabile tecnico del progetto, di estremizzare la GTO per trasformarla in una vera supercar celebrativa. Materazzi ricorse alla tecnologia più avanzata che Maranello potesse offrire. Solo per il telaio si preferì adottare il classico traliccio in tubi, di tradizione Ferrari, perché anche se Maranello già dal 1983 aveva cominciato a padroneggiare perfettamente la tecnologia dei materiali compositi, kevlar e carbonio, per i telai F1, non esistevano i mezzi per produrre chassis in composito in serie, pur se limitata. Però si ricorse a vetroresina e kevlar per porte e cofani per abbassare i pesi.
Seguendo il principio delle corse, ogni chilo di troppo era dannoso perché avrebbe penalizzato le prestazioni. Ecco perché l’interno della F40 è molto spartano: i sedili erano due gusci ricoperti di stoffa rossa, cruscotto ridotto al necessario, niente autoradio, persino i vetri furono sacrificati per finestrini di plastica con feritoia scorrevole. Unica concessione al comfort: l’aria condizionata perché il motore appena dietro l’abitacolo con gli enormi scambiatori di calore del turbo sovrastanti, scaldava più di una stufa. Per l’aerodinamica l’ing. Materazzi prese ad esempio le forme dei prototipi gruppo B, le GT da corsa dell’epoca. Il muso divenne quasi a cuneo con i fari incastonati all’interno, ampio labbro deportante anteriore, un’enorme ala posteriore fissa per tenere giù il retrotreno perché la potenza era spaventosa per l’epoca. Il motore V8 2.8 litri turbo della GTO fu portato a quasi 3 litri, mantenendo le bancate a 90°, e si ottennero la bellezza di 478 cavalli. Oggi al cospetto di hypercar da mille cavalli sembrano pochi, ma quei 478 cavalli erano peggio di altrettanti muli: scalciavano nella schiena se non sapevi dosare il gas. E nel 1987 non c’erano software che addolcissero l’erogazione della coppia per rendere più “guidabile” un motore scorbutico come il turbo che soffriva di ritardi alla risposta. L’elettronica si limitava a comandare semplicemente l’iniezione; i primi sistemi di engine management fecero capolino in F1 solo a metà anni ‘80 soprattutto per calcolare/dosare i consumi di una formula che aveva benzina contingentata. E questa necessità non serviva sui motori stradali. Per questi motivi la F40, guidata oggi al confronto con le supercar moderne, è una belva abbastanza intrattabile.