C'è un posto segreto sulla colonna vertebrale appenninica che divide l'Emilia-Romagna dalla Toscana, un luogo remoto dove i faggi diventano centenari, i lupi vagano indisturbati, i picchi neri tormentano le cortecce con i lunghi becchi robusti e la natura è talmente selvaggia che sembra impossibile bastino una cinquantina di chilometri per raggiungere Forlì o Cesena. Il Parco Nazionale delle Foreste Casentinesi è una delle aree forestali più incontaminate e pregiate d'Europa. Perché qui c'è una riserva integrale, quella di Sasso Fratino, la prima in Italia, dove all'uomo non è consentito metter piede dal lontano 1959 e che, dal luglio del 2017, è stata inserita dall'Unesco nel Patrimonio dell'Umanità. E perché i suoi maestosi boschi di faggi vantano alberi centenari, lungo i suoi ruscelli crescono specie rare nell'Appennino (come la Tozzia, pianta dai fiori gialli tipica delle montagne europee) e vivono lupi, cervi, tassi, donnole e faine.
Se Sasso Fratino è proibita a escursionisti e curiosi, si può però vagabondare tutto intorno alla scoperta di questa sorta di orto botanico spontaneo - custodisce oltre quaranta specie di alberi differenti, più di qualsiasi altra foresta d'Italia - e delle ragioni che ne hanno fatto un luogo naturalmente protetto. Fin dal Medioevo, a Sasso Fratino, la terra è instabile, si spacca, scaglia massi giù dai pendii; nemmeno i boscaioli si avventuravano nei suoi canaloni impervi limitandosi a tagliare gli abeti bianchi Casentinesi, preziosi per i cantieri navali che ne facevano solidi alberi maestri, intorno all'attuale riserva integrale.
Il lato romagnolo del Parco è più aspro e ripido, lontano dai centri abitati ne rappresenta la faccia più selvaggia, perfetta per un'escursione notturna sperando di udire il bramito dei cervi o l'ululato dei lupi. Poi però, abbandonati boschi e foreste, è d'obbligo una sosta a Bagno di Romagna, alle porte del Parco: il borgo montano conserva tracce dei suoi lunghi rapporti con Firenze e la Toscana negli stemmi nobiliari che decorano la facciata del Palazzo del Capitano e nelle maestose rovine del Castello di Corzano, un tempo di proprietà del monastero aretino di Camaldoli.